Sulla paura degli psicofarmaci (parte seconda)
In un precedente scritto ho ragionato sulle questioni generali che contrastano una corretta informazione sugli psicofarmaci e quindi, quando è il caso, un sereno accesso alle opportune terapie. Ora provo invece a discorrere sui pregiudizi, i dubbi, le paure che confluiscono in quel vissuto di ambivalenza che accompagna ogni trattamento psicofarmacologico. Per questa ragione non sono lontano dal vero quando vi dico che quasi tutte le terapie psicofarmacologiche partono zoppe. Infatti, ogni altra cura medica si accompagna sempre alla speranza di guarire o migliorare; al contrario, l’ospite scomodo di qualsivoglia trattamento psicofarmacologico è quasi sempre un malmostoso sentimento costituito da diffidenza, timore e senso di sconfitta.
Questa diversa disposizione fa davvero la differenza, perché l’attenzione del paziente si orienta da subito all’ascolto degli effetti collaterali, la cui comparsa, anche nella forma più benigna, segna fatalmente il fragile credito assegnato alla terapia, con la sua interruzione quale esito più frequente. Quante persone, infatti, descrivendo le pregresse esperienze psicofarmacologiche si dichiarano «intolleranti» o vittima di presunti «effetti paradosso». Nella maggior parte dei casi si assegna al frutto della paura la dignità di un evento avverso direttamente correlato alla specifica azione del farmaco. Si tratta dell’«effetto nocebo», che è il triste parente del più noto «effetto placebo» secondo cui la fiducia in una terapia ne amplifica, almeno inizialmente, gli effetti. Ecco quindi perché oggi mi prodigo a scrivere qualcosa sul coacervo di vissuti negativi attivati dall’ipotesi di intraprendere una terapia psicofarmacologica. Questo per aiutare chi con essa deve confrontarsi, al fine di soccorrerlo nello stemperare le insidie dell’effetto nocebo che ha il potere di alienarlo da qualcosa che potrebbe invece essere decisivo per la sua vita.
Comincio dal principe dei pregiudizi, ovvero dall’idea che gli psicofarmaci siano delle droghe. Assimilare gli psicofarmaci alle sostanze stupefacenti è un pregiudizio diffuso. A ben vedere per molte persone non c’è differenza tra psicofarmaci e stupefacenti. Quindi quando accade che qualcuno indossi lo scomodo abito del paziente, per primo teme che l’assumere psicofarmaci lo faccia diventare «altro» da ciò che lui è, al netto del suo disturbo. Ciò piuttosto accade a chi assume sostanze stupefacenti proprio per ricercare, in questo caso, un modo alterato di sentire e percepire, ma non è certo l’obiettivo di una buona terapia psicofarmacologica che mira a restituire al paziente il «prima» dello star male, e non un «altro» modo di essere e sentire.
Il pregiudizio dell’equivalenza psicofarmaco-droga contiene anche un’altra curiosa implicazione, per cui se gli psicofarmaci fossero sostanze stupefacenti ne dovrebbe conseguire sul filo della logica che gli psichiatri sarebbero dei «pusher legalizzati». E non è forse questa curiosa gemmazione del pregiudizio che corrobora la sinistra reputazione adesa alla categoria degli psichiatri e della psichiatria? Quanto basta per starne alla larga fintanto possibile. E la pensano allo stesso modo anche bravi professionisti di area psicologica – ugualmente attraversati dalla distorsione del pregiudizio – che indirizzano il paziente verso lo psichiatra solo innanzi al fallimento del loro intervento. Ma può essere che a quel punto il disturbo abbia già inciso troppo in quella vita, magari in modo irreversibile. Una relazione affettiva o il nostro lavoro sono beni troppo preziosi perché si rischi di perderli piegandosi all’esigenza di un’ideologia terapeutica piuttosto che attuare interventi farmacologici equilibrati e incisivi, ispirati a un pragmatismo teso a soccorrere la persona in difficoltà. Gli psicofarmaci in quest’ottica sono strumenti preziosi, nessuno lo dice!
Entrando però nel merito, è chiaro che prima di prescrivere uno psicofarmaco bisogna incrinare la forza del pregiudizio. Occorre spiegare ai pazienti che l’appeal delle sostanze stupefacenti è nel renderci diversi da quello che siamo, mentre per gli psicofarmaci è diverso, si assumono per recuperare l’equilibrio emotivo che si è perso a causa del disturbo. Se la terapia è efficace il paziente ritornerà quello che era, compresi tutti i suoi conflitti nevrotici che riuscirà però a gestire un po’ meglio una volta disciolto l’episodio depressivo o il disturbo d’ansia che lo attanagliava. Purtroppo il pregiudizio dell’equivalenza psicofarmaci-droghe è ad arte sostenuto dagli ingenui adepti delle correnti subculturali new age, da psicologi che confidano nell’onnipotenza delle loro prassi terapeutiche, da tutti coloro che vogliono speculare sulla sofferenza e proporre interventi palliativi per convenienza di bottega e infine da tutti noi che fatalmente siamo ciò che leggiamo.
La paura degli effetti collaterali
Ammesso che ci si emancipi da questo pregiudizio e prenda forma l’opzione della terapia psicofarmacologica, nell’attimo seguente si inciampa nella trappola degli effetti collaterali. È una legittima preoccupazione, alimentata però da una divulgazione scientifica sbilanciata (se non pseudoscientifica) che tende a sottolineare i rischi delle terapie psicofarmacologiche, allineandosi così alle aspettative dei lettori, e relegando Il discorso sull’efficacia e i benefici indiretti delle terapie agli studi scientifici che non sono facilmente accessibili. Avrete letto per esempio molte volte dei rischi d’abuso delle benzodiazepine, ma quante parole sono spese dagli stessi organi d’informazione per descrivere l’utilità di questi farmaci nella gestione degli stati emotivi acuti? Nessuna! Ecco un esempio, tra i molti possibili, di un’informazione sbilanciata che alimenta diffidenza e paura.
Certo gli psicofarmaci hanno specifici profili di collateralità e il loro uso si correla a rischi, che non sono tuttavia così diversi da quelli che accettiamo a cuor leggero quando ingeriamo farmaci a cui non è assegnato il sinistro prefisso «psico». Purtroppo la lettura dei foglietti informativi demotiva i coraggiosi e mette in fuga i paurosi. Ma se questi sono detti «bugiardini» ci deve pur essere una ragione. Ed è che sono dei cattivi promotori del farmaco, poiché la terribile sequenza delle disgrazie elencate è un dovuto atto informativo che ha tuttavia il fine primo di tutelare le aziende piuttosto che fornire un quadro equilibrato di ciò che accadrà dopo l’inizio della terapia. Se poi la relazione terapeutica non è cementata dalla resina della fiducia, quando il farmaco viene assunto si innesta l’effetto nocebo per cui ogni effetto collaterale è enfatizzato ed elevato alla dignità di «reazione avversa», di «intolleranza», di «effetto paradosso».
La paura della trasformazione
Qualcuno potrebbe rilevare che in alcune persone che assumono psicofarmaci ciò risulta immediatamente evidente: sono in sovrappeso, camminano in modo incerto, hanno le mani che tremano, lo sguardo che tende alla fissità e la loro parola è incerta. Insomma, la terapia li ha trasformati! L’angoscia della trasformazione è un timore radicale che si condensa nell’idea che la rinuncia alla propria identità psicofisica sia il prezzo da pagare per soffrire meno. È un pregiudizio tanto scellerato quanto diffuso. È una stupidaggine.
Ogni disciplina medica cura disturbi differenti e di diversa gravità, per i quali esistono cure efficaci, parziali, palliative e variamente gravate da collateralità. La psichiatria non fa eccezione. Certo è possibile che la collateralità di alcune terapie necessarie in certi disturbi sia particolarmente evidente e sgradita, ma ciò accade in tutti i casi di gravi patologie (oncologiche, cardiologiche, polmonari, metaboliche ecc.) per cui sono necessarie cure «intensive». Nella maggior parte dei casi le cure psicofarmacologiche sono tollerabili, se non prive di effetti collaterali, e la loro efficacia coincide con il recupero dell’equilibrio emotivo e comportamentale, e non con l’inquietante trasformazione paventata dai nostri timori e pregiudizi che hanno l’effetto di alienarci proprio dalla cura necessaria. Accade così che la paura della trasformazione ci renda particolarmente inclini all’ascolto di coloro che promettono cure «tenui», che a poco servono se il problema è serio ma che ci fanno perdere tempo prezioso con il rischio di incrinare la nostra tenuta come colleghi, partner e genitori.
La paura dell’assuefazione e del divenire dipendenti dalla terapia
Ecco un’altra paura, che ho sentito più volte enunciare: «Anche ammesso che la terapia serva e io la tolleri, ne diventerò assuefatto e dovrò assumerla per sempre, in dosi sempre crescenti». È falso! Il problema dell’assuefazione è pressoché teorico, se non per le benzodiazepine (ansiolitici), ma questa è un’evenienza remota se si effettua una cura sotto il controllo medico. Certo quando questi farmaci sono assunti in autonomia, come automedicazione, è possibile osservare il fenomeno dell’assuefazione. Ma non è qui il caso di dilungarci sul fatto che l’automedicazione si accompagna a gravi rischi, e ciò vale per tutti i farmaci, anche quelli che non possono fregiarsi del sulfureo prefisso «psico».
Per quanto concerne la paura della dipendenza, bisogna distinguere tra quella fisica e quella psicologica. Essere fisicamente dipendenti da un farmaco significa che se non lo si assume si sta male. Ora è vero che la sospensione scorretta di alcuni psicofarmaci può accompagnarsi a sintomi fastidiosi, ma questi sono tuttavia lontani cugini delle gravi sindromi astinenziali conseguenti all’uso di alcune sostanze stupefacenti. Se poi faccio riferimento alla mia, non breve, esperienza di psichiatra, posso dire di aver avuto un solo caso di astinenza critica in un paziente che assumeva da più di quindici anni un antidepressivo senza mai aver consultato in tutto questo tempo uno psichiatra.
Alcuni pazienti pongono poi il punto della dipendenza psicologica, ma qui è necessario specificare che la vera dipendenza psicologica si ha quanto si continua ad assumere qualcosa che ci gratifica, ci fa stare bene, ma allo stesso tempo ci causa danno. È il caso del fumo, delle droghe, dell’alcol, del gioco d’azzardo e qualche volta del sesso. Ma, siccome a nessuno verrebbe in mente di definirsi dipendente (nell’accezione negativa) dagli antipertensivi, dai diuretici o dai farmaci antidiabetici, si può ben intendere l’insensatezza del «sentirsi dipendenti» da una terapia che ci cura e protegge dalle recidive di una malattia depressiva, di un disturbo bipolare, di un disturbo ossessivo compulsivo. Eppure così ci si sente, «aiutati» dai farmaci e «dipendenti» dagli psicofarmaci. Questo perché ci è possibile concepire la necessità di cure mediche, mentre al contrario quando il nostro disagio emotivo/cognitivo è l’espressione di una disfunzione del cervello aborriamo tale ipotesi, poiché l’idea di non aver il controllo sull’organo che esprime la nostra identità non ci piace affatto e ricerchiamo perciò con gran furia una ragionevole motivazione psicologico-relazionale al nostro disagio. Operazione non complessa, perché chiunque ci circondi – psicoterapeuti compresi – è generalmente incline a colludere con la nostra negazione.
La sofferenza mentale è un’entità complessa, alla cui espressione compiuta partecipano in varia misura gli irrisolti nevrotici (questi sì da trattare in psicoterapia) ma anche quadri sindromici espressione di sottese disfunzioni neurobiologiche, che possono utilmente beneficiare di appropriate terapie psicofarmacologiche. Ecco quindi la sostanza della sfida terapeutica: discernere e pragmaticamente individuare piani di trattamento personalizzati in cui psicofarmacoterapia e psicoterapia si intrecciano e si gerarchizzano in funzione della realtà clinico/relazionale/sociale del paziente. Insomma, il paziente al centro. E, quando questo accade, il timore della dipendenza si liquefà all’interno di una tale presa in carico.