La maglietta Carrefour: un crimine o la rappresentazione di una solitudine?
Due scene, in ognuna due figure stilizzate. Nella prima un uomo e una donna, lei parla animatamente. Nella seconda scena la donna precipita spinta da lui, lo si intuisce dal suo braccio teso. Sotto si legge Problem solved. Tutto ciò è stampato su una maglietta azzurra in vendita nei supermercati Carrefour.
A fare esplodere il caso, provocando poi le scuse dell’azienda, sono alcune parlamentari del Partito Democratico. Una di loro posta la foto della t-shirt e twitta: «Ho appena visto questa maglietta in vendita al Carrefour. Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? L’azienda sposa questo messaggio? Gravissimo, specie in un Paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno. Chiariscano o dovrò buttare la mia tessera». Chi non è d’accordo con questa lettura della faccenda? Difficile pensarla diversamente. Ma è tutto così semplice? O ci stiamo dimenticando qualcosa?
«Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente se ne va da sé al manicomio.» Con queste parole Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, ha descritto lo spirito di omologazione di un’umanità senza più Dio. Questo ci aiuta a capire perché la ricerca del consenso sia una cifra dell’uomo moderno. Per l’uomo antico era più semplice, buone azioni e sacrifici garantivano il consenso divino e ciò bastava. Ma smarrito il senso del divino, in assenza di un riferimento supremo, ecco che il consenso dei simili diventa fondamentale. Così l’adeguamento alle aspettative del gruppo è divenuto cornice che contiene, indirizza e forza il nostro pensare e il nostro sentire. Qui sta la forza negativa dell’ideologia politicamente corretta, divenuta il metro di misura della propria appartenenza al gruppo percepito come maggioranza accogliente, un’appartenenza al tempo stesso tranquillizzante e soffocante.
Ora, nello specifico della maglietta, i media stanno veicolando il modo di pensare politicamente corretto in cui ogni manifestazione violenta del maschile è stigmatizzata, rifiutata e condannata. Si può pesare diversamente? Sembra di no. Cercare di rileggere la drammaticità relazionale raccontata dai due pittogrammi è scandaloso e politicamente scorretto, inopportuno; significa schierarsi dalla parte sbagliata. Ecco quindi che cosa ci stiamo dimenticando: il coraggio di capire, di trascendere il soffocante monopensiero del politicamente corretto per cui «chi sente diversamente se ne va da sé in manicomio», cioè è fatto fuori.
Se abbiamo il coraggio di guardare da una diversa angolazione, la storia della maglietta racconta un’altra cosa, una verità semplice che l’abbacinante faro del politicamente corretto appiattisce sino ad annullare. Nel primo pittogramma c’è una donna che urla, che aggredisce verbalmente un uomo, una donna ferita che sputa fiele; al suo fianco un uomo che tace incapace di controbattere, subendo in silenzio, un uomo che non trova le parole. Questa è prima di tutto una scena della solitudine, di solitudine relazionale. Nel secondo pittogramma l’azione è dell’uomo, che perfeziona la sua solitudine spingendo nel precipizio la compagna alla quale non resta che continuare a urlare, prima per rabbia e ora, nel precipitare, per paura. Anche questa seconda scena è un’immagine di solitudine.
Entrambe le immagini raccontano di azioni verso l’Altro in cui questo non è più che l’oggetto della furia delle parole o del gesto. È il fallimento dell’intimità, intesa come capacità speciale di raccontare di sé all’Altro, di raccontare il bisogno e la debolezza che ci attraversano, rendendolo importante in quanto depositario di questa intimità. È il fallimento della capacità di chiedere il soccorso dell’Altro. È questa l’altra storia raccontata dalla maglietta. Una storia vera e cruda, che parla dell’ignoranza relazionale che spesso abita il rapporto tra i generi. Poi, certo, è anche la rappresentazione di un crimine; e anche, volendoci omologare alla linea di pensiero comune del politicamente corretto, un’intollerabile istigazione al femminicidio o, per essere meno drammatici, una provocazione tipica di quella sottocultura maschilista che è sempre compiaciuta quando può tacitare la voce alle donne.
Il punto è che questa vicenda si presta assai bene a mostrare come lo spirito di omologazione al pensiero politicamente corretto ci induca a interpretare le vicende secondo il pensiero dominante e così, inebetiti, siamo impediti a leggere la verità della storia, quella raccontata dai due pittogrammi, che è poi la storia di tutti coloro che, cercando di articolare qualcosa di emotivamente significativo, smarriscono parole e i silenzi opportuni per farlo. Giusto ritirare la maglietta. Ma, badate, non è una vittoria di civiltà, piuttosto un’occasione persa per sottolineare il peso delle solitudini che asfissia le coppie e che può generare drammi.
CR