Difendersi dalla disinformazione sulla depressione

Qualche tempo fa a una cena un noto giornalista di Torino mi spiega che l’essenza del suo lavoro è accertare la verità e raccontarla. Aggiunge che la verità abita in un orizzonte nebuloso che si può dischiudere solo se le fonti sono disinteressate e competenti. Insomma il lavoro sulla verità è assai complesso e dagli esiti incerti, non stento a concordare con questa analisi. Quando infatti il tema del disagio mentale è trattato sui quotidiani raramente è sviluppato con competenza ed equilibrio, con il risultato che la celebrata «verità» si torce sotto la pressione del credo ideologico, spacciato per scienza o peggio degli interessi di bottega. Ecco quindi che la supposta verità non dischiude ma appesantisce e le persone dovrebbero essere protette da questa mistificazione.

A titolo di esempio mi riferisco a uno dei tanti articoli pubblicati sul tema, che potete leggere all’indirizzo http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2018/05/21/ACA5tkwDemergenza_psicofarmaci_italiano.shtml. È un’analisi che prende spunto da alcuni dati epidemiologici interessanti ma che fallisce nel fornire una valutazione equilibrata del problema in questione. Innanzitutto non definisce l’oggetto dell’analisi. Di che cosa si parla? Di disagio esistenziale, di debolezza umana, di difficoltà ad accettare i limiti della vita, di conseguenze dello stress o di malattia depressiva vera? Di questa di certo no, non è mai davvero evocata. E allora fioriscono nel corso dello scritto una serie di approssimazioni che soffocano la possibilità di un’informazione bilanciata e prossima alla verità. Non ci sarebbe voluto molto a dire – ma ci sarebbe stato bisogno di buone fonti – che esiste il disagio esistenziale, il lutto e anche la malattia depressiva vera, quella che se non trattata farmacologicamente si configura come mal practice (e lo psichiatra, in caso di suicidio del paziente o lesioni a parti terze, ne risponde legalmente).

Questo aspetto non pare averlo ben chiaro il giornalista che invece, supportato dal suo «esperto», dà fiato al solito retrivo e ideologico tema degli interessi delle multinazionali del farmaco. Ma non è stato informato che tutti i brevetti dei farmaci antidepressivi sono scaduti, eccetto uno, e che quindi nessuna delle aziende investe alcunché su questi farmaci? Ancora, come è possibile citare casi di suicidio allargato che sarebbero diventati tali perché il malato (suicida o assassino) avrebbe rifiutato di coricarsi sul lettino dello psicologo? In questa guisa si opera una disinformazione pericolosa poiché si suggerisce che un disturbo mentale grave, come quello citato, sia un problema emotivo da trattare nello studio dello psicologo e non una vera malattia mentale che necessita di una puntuale presa in carico psichiatrica. Fa specie inoltre che tra gli esperti consultati non sia annoverato uno psichiatra, pur non mancando però il parere di un illustre professore di filosofia morale che dice la sua in merito alla questione. 

Eppure sarebbe bastato raccontare che cosa è la malattia depressiva, quella vera, quella per cui ci si uccide, si perde il lavoro e anche gli affetti. In mancanza di uno psichiatra di scuderia sarebbe bastato rivolgersi alla Società Italiana di Psichiatria per ricevere un’informazione equilibrata in merito e si sarebbe potuto poi dare voce correttamente a tutti gli psicologi, i filosofi, i sociologi, gli assistenti sociali, gli educatori perché dissertassero come meglio credevano sul disagio dell’esistere e delle sue ragioni. In questo modo non si sarebbe fatto un torto a chi di malattia depressiva soffre davvero e che in questa zoppa analisi è stato assimilato alle persone considerate un po’ «depresse» perché in difficoltà nell’accettare i limiti dell’esistere. Bastava poco, ma troppa ideologia, troppi interessi di bottega e troppa ignoranza congiurano per soffocare le pur incerte verità scientifiche sulla malattia depressiva.

CR