Hikikomori: dal bambino talentuoso al suicidio sociale dell’adolescente

Marco ha 16 anni e il suo curriculum scolastico era ineccepibile sino ad alcuni mesi fa. La madre, ancora orgogliosa dell’intelligenza e delle pregresse imprese del figlio, mi dice che lo chiamavano «Marco lo scienziato». Disorientata, incapace di darsi una ragione del suicidio sociale in cui si trova ora il figlio, racconta l’orizzonte radioso che per lui e con lui immaginava: «Ha sempre saputo che sarebbe diventato un medico, ma di quelli importanti».

A ben guardare, verso la fine del primo anno di Liceo c’era stato un cedimento della performace scolastica, «nulla di preoccupante», continua la madre, ma già lì un’ombra si era insinuata nelle certezze del figlio. Ora, a tre mesi dall’inizio del secondo anno, Marco si rifiuta di andare a scuola. Lamenta mal di stomaco, nausea (alcune mattine vomita) e poi tanta ansia per non essere riuscito a prepararsi per le interrogazioni. «Non me la sento di andare… oggi non vado a scuola». Urla materne, prese di posizione del padre, ma nulla da fare. Anche quando Marco ha provato a ritornare a scuola, gli sguardi dei compagni e le domande degli insegnanti erano lame che lo facevano precipitare in un panico che sfociava in un anticipato rientro a casa.

Loro, i genitori, sono ora nel mio studio a chiedere aiuto. Sono spersi, addolorati e stravolti dal ritiro inspiegabile del figlio. Vogliono capire perché. Marco infatti da qualche mese si è autorecluso nella sua stanza, dorme sino al pomeriggio, trascorre molto tempo al computer, la sua vita sociale si è ristretta a qualche uscita serale con gli amici di sempre. Non è una storia originale, è la storia di quei ragazzi che hanno deciso di ritirarsi dalla vita, di suicidarsi socialmente proprio nel momento in cui dovrebbero socialmente nascere. È un fenomeno in espansione su cui merita riflettere.

Per descriverlo va per la maggiore un termine giapponese, hikikomori, da hiku «tirare indietro» e komoru «ritirarsi». È stato uno psichiatra giapponese, Saito Tamaki, a dare la prima descrizione clinica del fenomeno. Gli anglofoni usano il termine social withdrawal, che potremmo tradurre in «ritiro sociale», ma alla fine qui in Italia il termine hikikomori si sta imponendo poiché indica precisamente il dramma sopra tratteggiato.

Ma che cos’è alla radice l’hikikomori? È un crollo emotivo di un adolescente nel periodo in cui inizia il compito evolutivo di aprirsi al mondo dei pari, di sperimentarsi al di fuori della nicchia famigliare. In questo aprirsi al mondo l’adolescente fa esperienza dei suoi limiti – è un movimento da cui siamo passati tutti – ma il soggetto affetto dalla sindrome di hikikomori ha il suo tallone d’Achille nello sperimentare che è meno speciale di quanto egli pensi e di quanto gli abbiano fatto credere. Si tratta di una fragilità. Lo specchio dell’infanzia rimanda al futuro hikikomori un’immagine magnifica, lo specchio dell’adolescenza gli presenta invece un’immagine molto diversa fatta di sbandamenti, limiti, mancanze, infinita angoscia e vergogna. Ecco perché si attua la scelta radicale e «incomprensibile» del ritiro nella propria casa, nella propria stanza. Questo movimento consente all’hikikomori di allontanarsi dallo sguardo giudicante degli altri e di sé stesso. Le emozioni negative trovano sollievo nell’utilizzo dei giochi virtuali, che sedano l’ansia e consentono contatti relazionali più neutri.

Provando a inserire il futuro hikikomori dentro un sistema famigliare potremmo dire che si tratta di un ragazzo cresciuto all’interno di un modello educativo improntato all’alleanza e alla complicità, un terreno affettivo e relazionale nel quale il bambino ha interiorizzato da un lato un ideale molto ambizioso e dall’altro l’incapacità di contemplare e affrontare la delusione, la sconfitta, il fallimento momentaneo e la vergogna. È un gigante d’argilla, solitamente maschio, figlio unico o primogenito, che sino a che non è stato messo dalla vita a confronto con i suoi limiti ha creduto di essere meglio degli altri, supportato da una madre molto presente e compiaciuta dei suoi successi. Costellazione familiare questa non inusuale, ma che genera in bambini che sono stati talentuosi e sovrainvestiti di aspettative l’angosciante timore del fallimento quando con l’adolescenza si interrompe il flusso di successi ed encomi e si inizia a mietere qualche sconfitta.

Per crescere si sbanda e si sbaglia, tutto normale potremmo dire, ma per questi giovani, vulnerabili alla vergogna, l’insuccesso diviene il marchio dell’inadeguatezza. Il futuro, nel loro sentire, non potrà che portare con sé la certezza della loro incapacità. A questi adolescenti smarriti, angosciati, con madri che non hanno più il potere di riflettere su di loro convincenti bagliori di grandezza, non rimane che ritirarsi, facendo di questo movimento l’unico modo tollerabile di stare in vita. La vergogna è l’emozione che li domina e risucchia loro la vita insieme a quella delle loro madri.

CR