Le ragioni della freccia di Cupido

L’innamoramento accade, ci sorprende in un certo momento della vita. Emblematico della sua imprevedibilità è il tema iconografico di Cupido, raffigurato nelle vesti di un fanciullo nudo, alato, furbo e po’ impudente che con i suoi dardi fa innamorare sia gli dei sia gli umani. Le frecce scoccate dal dio fanciullo hanno differenti poteri: quelle d’oro infondono amore in chi viene colpito, quelle di piombo suscitano avversione nel cuore dell’amato o dell’amante. La lettura della rappresentazione iconografica di Cupido è abbastanza trasparente: l’aspetto infantile simboleggia il comportamento immaturo – in apparenza – degli amanti; la nudità dirige l’attenzione sulla sfacciataggine insita nell’esibizione della relazione passionale; le ali alludono alla volubilità degli stati amorosi; infine le frecce alla vulnerabilità dell’amante e alle ferite procurate dalle pene d’amore. Ma il dio è talora raffigurato con una benda sugli occhi, un’evoluzione iconografica osservabile nelle arti figurative a partire dai primi decenni del XIII secolo. Questa successiva e ulteriore connotazione di Cupido suggerisce due nuove letture del suo operato: da un lato la cecità simboleggia infatti il modo in cui il dio fanciullo colpisce con le sue frecce, del tutto alla cieca senza distinzione fra sessi, età e ceti sociali; dall’altro, diventano ciechi coloro che sono colpiti dai dardi amorosi, nel senso che sono incapaci di ragionare una volta precipitati nella follia della passione amorosa. Insomma, Cupido non sa quali sono le vittime dei suoi dardi, che sono appunto scagliati alla cieca, e le sue vittime, una volta colpite, non sanno più attenersi a un comportamento ragionevole. La cecità di Cupido introduce due temi interessanti per intendere meglio la natura della passione amorosa. Primo: questa non è prevedibile, ma accade e quando arriva – e questo è il secondo punto – ci rende ciechi, nel senso che ottunde l’intelletto degli amanti. Dietro a questo modo di intendere la passione amorosa vi è l’idea che questa esperienza accada senza annunciarsi, che sia al di fuori del nostro controllo, della nostra volontà e dei nostri desideri. Accade e basta.

La comprensione psicologica del lavoro di Cupido è in sintonia con il nostro bisogno moderno, scientifico, di analizzare gli eventi, ma non di meno pone l’accento sul carattere solipsistico del fenomeno. Freud ci ha spiegato che alla base dell’innamoramento c’è un processo per il quale io amo nell’Altro ciò che vorrei essere e non sono. Mi innamoro, insomma, del mio ideale, che in quanto tale non raggiungerò mai. L’astuzia in questa partita solitaria è che io, che inconsapevolmente mi appresto a innamorarmi, lancerei sull’Altro il mio ideale di perfezione trovando così modo di congiungermi con esso – il mio ideale – attraverso l’Altro che si presterebbe a incarnarlo per un certo tempo. Possiamo dirla anche così: se il raggiungimento della perfezione mi è impossibile, cercherò di rendere un Altro perfetto e di raggiungere per interposta persona la perfezione. In questo modo, l’Altro diviene improvvisamente una sorta di idolo, i suoi difetti si attenuano perché viene rivestito di preziosi broccati, con il risultato che l’innamorato si sente impoverito rispetto a lui ma gratificato dall’essere perdutamente attratto da una tale persona. Detta così, la passione amorosa è proprio solo farina del nostro sacco, l’appagamento reciproco di un’illusione, un’operazione solitaria che riveste la fisicità e l’intelletto dell’Altro di vesti preziose per il solo fine di avvicinarsi al nostro ideale e quindi sostenere la nostra autostima. In questa prospettiva «siamo mortali alla ricerca di dei». Oppure, come più prosaicamente sostiene Giacomo Casanova nella Storia della mia vita, «Quando c’è di mezzo l’amore di solito ci si inganna da tutte e due le parti».

Certo, questa è una visione poco romantica dell’innamoramento, anzi così ci appare più una faccenda di privata economia psicologica. Mi verrebbe da pensare: meglio Cupido che Freud, meglio pensare che tutto accade per destino e non per mere questioni di solipsistici equilibri psi- cologici. Tuttavia, vi dico subito che tale prospettiva non è esaustiva del fenomeno e, se anche in parte lo spiega, lascia diverse questioni aperte. Per esempio, in questa prospettiva teorica non riusciamo a spiegare perché ci innamoriamo proprio di quella persona e non di quell’altra, che magari è più affabile, abbiente o semplicemente più bella. Perché tra cento io scelgo te e tu scegli me?

In verità Freud ha tentato di spiegare il processo dell’innamoramento anche in un altro modo. Ha infatti teorizzato che la freccia di Cupido non colpisca a caso o a ragione del suo capriccio, ma che sia più simile a un missile cruise (questa metafora è ovviamente una mia licenza). Per chi non lo sa, i cruise sono missili evoluti con un motore che resta acceso per tutta la durata del volo e con ali che permettono di volare come aeroplani e di controllare continuamente la rotta sino a centrare l’obiettivo con grande accuratezza grazie a un sistema di guida basato sul GPS. Ecco, la freccia di Cupido in questa seconda versione freudiana della passione amorosa è teleguidata, non colpisce a caso. L’innamoramento non è una fatalità, non ci innamoriamo per caso, ma di qualcuno che nel suo modo di essere ripropone qualche tratto tipico ed emotivamente significativo della nostra relazione con il padre o con la madre. La freccia, teleguidata dal nostro inconscio, si dirige verso certi soggetti e non altri possibili proprio perché questi primi avrebbero tratti del carattere, modi di fare, di pensare, di sentire e di rapportarsi che ci attirano, promettendo la riedizione delle relazioni d’amore, spesso irrisolte, della nostra infanzia. Quando ci innamoriamo, questi tratti sono spesso sullo sfondo e del nostro principe ci attrae altro, magari la sua avvenenza; per le antenne del nostro inconscio però, sintonizzate sui tratti irrisolti delle nostre prime relazioni affettive, l’amato ci appare come la risposta a quei sospesi. Ciò accade perché ci pare (inconsciamente) che le relazioni affettive si possano declinare solo in contesti emotivi simili a quelli passati, anche se questi erano deficitari. Detto in altro modo, i nostri sospesi emotivi rendono particolarmente attraenti quei partner con cui ci sembra possibile rieditare i temi dominanti e irrisolti delle nostre antiche relazioni – che di solito sono di ricerca, di resa o di fuga dall’Altro – e che adesso ci apprestiamo a rivivere con quella persona speciale. Purtroppo, tutto ciò assicura mediamente un buon grado di infelicità quando il fuoco della passione amorosa si attenua. Succede, per esempio, che se una donna ha avuto un padre freddo, distante e traditore, la freddezza del suo incipiente amante, se pur non gradita consciamente, la attragga non poco perché collegata a quella del padre molto amato e sfuggente.

L’ambivalenza, l’iperprotettività, la freddezza, la scostanza dei nostri genitori segnano il nostro stile relazionale in modo tale da indurci nella vita adulta a ricercare partner, magari molto diversi dai nostri genitori, ma che riproducono una particolarissima dinamica che ha segnato il nostro rapporto con loro e a cui la nostra mente si è fissata. Questo spiegherebbe perché diversi tra noi inanellano una serie di partner negativi e simili nelle loro modalità relazionali. Pertanto l’analisi freudiana del perché ci innamoriamo di Tizio e non di Caio riguarda il fatto che il primo ci permette di rieditare inconsciamente un rapporto con un oggetto perduto, il padre o la madre. Si tratta di teorie interessanti, ma che non mi sembrano sufficienti a spiegare tutte le ragioni della capricciosità di Cupido. Certo è condivisibile l’idea che il nostro inconscio sia l’architetto dell’innamoramento. Infatti, quando pensiamo di innamorarci con un atto di volontà, non ci riusciamo, non possiamo proprio riuscirci. Invece ci innamoriamo quando meno ce lo aspettiamo. Il punto è che la cornice comprensiva freudiana della passione amorosa non mi sembra esaustiva. Ci innamoriamo davvero solo per ritrovare un oggetto affettivo perduto dell’infanzia? Per rieditare, con l’illusione di risolvere, una particolare relazione conflittuale con uno dei genitori? E, ancora, ci innamoriamo solo per implementare la nostra autostima essendo ricambiati da un Altro che noi stessi abbiamo reso perfetto? Penso che tutti questi aspetti partecipino in vario modo alla costruzione dell’innamoramento; tuttavia, ognuno di essi ha il difetto d’essere un po’ troppo in odore di patologia. Bisogno di autostima, conflitti irrisolti, radicate nostalgie infantili sono aspetti che ci appartengono, ma diventano particolarmente evidenti nelle persone problematiche, diciamo nevrotiche. Non a caso queste teorie provengono da clinici e dalle analisi dei rispettivi pazienti. Ci deve essere qualcosa di più generale che renda ragione della direzione particolare della freccia di Cupido. Vediamo.

Quando ci innamoriamo, tutti invariabilmente a un certo punto – dopo qualche ora o qualche giorno – viviamo l’esperienza del già vissuto, del familiare. Desideriamo conoscere la persona che ci ha stregato, ma abbiamo anche la sensazione che sia il partner che abbiamo sempre sognato, la cui idea viveva nella nostra mente da sempre. «È tutta la vita che ti aspetto… sei la mia anima gemella», frasi dette o sentite che indicano una precisa aspettativa che viveva silente dentro di noi. Ora, però, la concretizzazione del nostro amato si offre come contenitore del coagulo di aspettative, bisogni, desideri da noi riposti in un angolo in ombra della nostra mente, forse perché percepiti sino a quel momento come inopportuni alla nostra realizzazione. Ora che lui o lei è lì davanti a noi, a incarnare il nostro script, il nostro copione, il nostro modello interiorizzato dell’anima gemella, ora che il suo sguardo incrocia il nostro, quel copione che riposava dentro di noi si manifesta alla nostra coscienza e al nostro cuore, e scatta l’innamoramento. Ma ciò che ha avuto il potere di far riemergere il copione latente non è solo un oggetto perduto dell’infanzia (padre o madre) che il nostro partner o qualche suo aspetto promette di rieditare nella relazione, ma un più generale e almeno in parte a-storico oggetto che coincide con uno stato di desiderio intrinseco, figlio anche dei nostri istinti naturali, delle nostre attitudini, oltre che delle già dette vicissitudini emotive. Nell’innamoramento quel desiderio inconscio ora si materializza nella persona in carne e ossa e, dal momento che il calco del coagulo desiderante già viveva in noi, quando questo coincide con l’amato ecco che ci appare una visione estatica e allo stesso tempo familiare. E non ci rimane che sussurrare: «È tutta la vita che ti aspetto». Quest’ultimo modo di intendere le ragioni della freccia di Cupido è più convincente e anche più simpatico, perché le svincola dal giogo della patologia. L’innamoramento è infatti un’esperienza della normalità.

CR