Omicidio di Luca Varani: una delle possibili tragedie della negazione sociale della morte
Centosette ferite sul corpo. Martellate in testa, sulla bocca, il collo segato con una lama e poi stretto con un laccio, coltellate al torace, alcune sferrate solo per il piacere di provocare del male. Prima stordito e reso inoffensivo, poi massacrato e seviziato per ore. Il 4 marzo del 2016 Luca Varani viene assassinato dopo una notte di inumane torture. I suoi killer sono Marco Prato e Manuel Foffo. In quell’appartamento a Roma i due assassini hanno messo in atto, nelle parole dei giudici che hanno condannato Foffo a trent’anni (Prato si è tolto la vita in carcere), «un esercizio atrocemente compiaciuto e ripetuto di violenza sadica, un disegno perverso che prevedeva il raggiungimento del piacere personale attraverso l’inflizione di sofferenza a una vittima».
Provo una pietà infinita per Luca Varani, a cui il taglio delle corde vocali ha addirittura impedito di dare voce alla sua angosciante agonia. Sono attratto e atterrito dalla frase riferita, pare, da uno degli assassini: «Abbiamo deciso di drogarci e poi di uccidere qualcuno». Ma perché uccidere solo per fare l’esperienza di uccidere? Si può uccidere per odio, per rabbia, per gelosia, per paura, per sbaglio, per un ideale o quando l’eccitamento sessuale si intreccia con la passione necrofila necessariamente sadica – questa la tesi dei giudici. Eppure quella frase pronunciata da uno dei due «scellerati» segna un’ulteriore e moderna ragione del male. Quale? Nella cultura occidentale l’esperienza del limite, ovvero qualsiasi limitazione al nostro godere assurto a diritto dei diritti, è percepita come un fardello. Così per l’evento della morte, il paradigma di tutti i limiti, che è rifiutato al punto da essere relegato alla sola sfera privata. Si cerca di godere freneticamente la vita ignorando la morte. Al più ne parliamo come di un evento impersonale, che riguarda l’anonimo.
«Si muore, ma non sono io che muoio.»
Così la morte, pensata come il destino di un’impersonale categoria, finisce per non essere una realtà, per nessuno. Insomma abbiamo perso «il coraggio dell’angoscia» direbbe Heidegger, che si regge sul comprendere che la morte non è solo una certezza empirica derivante da un calcolo statistico dei casi di morte registrati, ma è l’unica possibilità per l’individuo di comprendere se stesso, perché proprio la consapevolezza della propria finitezza significa ogni nostra azione. Ne consegue che vivere all’interno di un humus culturale quale il nostro, che nega sostanzialmente la morte, comporta un pericoloso svuotamento di significato dell’esistenza, inevitabili vissuti di inutilità e di non senso. Alcuni cercano così risposte nella psicoterapia, ma altri purtroppo si abbandonano all’uso di sostanze o mettono in atto comportamenti a rischio, che possono in alcune scellerate avanguardie – l’omicidio di Varani ne è un esempio – accendere il folle e confuso desiderio di riappropriazione di senso. E ciò non riguadagnando il rapporto con la propria morte, ci vuole coraggio per questo, ma riavvicinandocisi concretamente attraverso un assassinio, vile ed efferato, sostenuto dal «coraggio drogato» della cocaina.
CR