Una riflessione sul disagio psichico in carcere*

Questo argomento non ha gran presa: per la più parte di noi chi rompe il patto sociale viene escluso dalla società e di fatto rimosso dall’orizzonte d’interesse. In omaggio a chi in carcere presta la sua opera e a chi, suo malgrado, meritatamente lo subisce, voglio dire qualcosa sulla drammatica complessità emotiva e organizzativa dell’universo carcerario.

Il carcere è, per certo e di fatto, un contenitore di disagio psichico: quello provocato dallo stato detentivo, ma anche, e soprattutto, quello che non trovando alcuna risposta fuori da esso, anche per questo, trova modo attraverso la devianza di entrarvi e prosperare. Il carcere è pertanto un contenitore e un evocatore di disagio psichico, oltre che di vera patologia mentale. Nelle carceri vi è, e cresce, una sofferenza psichica che non entra nelle fasi del processo penale, perché nulla ha a che fare con il problema dell’imputabilità; tale area di disagio è vasta, poco riconosciuta e si intreccia con la patologia mentale vera, il disagio sociale e la miseria culturale.

Il punto è che nel carcere la tendenza ad agire il disagio psichico è pratica diffusissima, pochi sono gli spazi di riflessione e pochissime le occasioni di confronto. Tutto tende a essere agito nell’immediato: la richiesta di aiuto o la protesta acquisiscono la densità di un atto autolesivo, di un’aggressione o del rifiuto ad alimentarsi. Così pure le risposte istituzionali sono agite: il farmaco, il piantonamento, la pressione autoritaria. Sembra esserci pochissimo spazio per le emozioni, che sono continuamente negate, «recluse» e agite, e questo vale per tutti: l’agente non può essere comprensivo perché diviene «connivente», il medico non può essere accogliente perché diviene «manipolato»; il detenuto non può essere debole perché sarebbe schiacciato. L’impulsività o il ritiro sociale caratterizzano quindi l’espressività del disagio.

In un contesto così complesso la funzione terapeutica e riabilitativa non può che essere sostenuta da un’organizzazione di rete in cui l’operatore della salute mentale e l’educatore svolgono il loro faticosissimo compito di mediazione tra un’istituzione forte, quale il carcere, e l’individuo disagiato, di lettura delle dinamiche istituzionali che hanno generato l’episodio critico, di proposizione di una migliore qualità di vita, di motivazione al trattamento in soggetti spesso riluttanti, di formazione e supporto al personale di sorveglianza.

Ma l’impegno terapeutico più duro è nel tentare, se possibile, una funzione riparativa tra ciò che la persona era fuori, prima del reato, e quella che è adesso dentro il carcere con il «fuori» che continua a fluire; è nell’aiutare il detenuto a dar voce alle sue paure, rinunciando al ruolo recitato per essere all’altezza di quanto richiesto delle leggi non scritte della convivenza carceraria. Mediare, sostenere, curare, ma anche contrattare: sulla terapia, sulla collocazione, sulle richieste di benefici.

È una mediazione spesso impari: la contrattualità tra le due parti non è uguale; apparentemente l’operatore ha maggiore forza, ma quanto potere ha un detenuto che minaccia il suicidio? Allora il senso dell’operare prende la forma della ricerca di un punto d’incontro tra le richieste – spesso impossibili – e le possibili risposte. Ovviamente non tutto può essere sempre definito, non tutto si può concludere con un sì o con un no, ma interporre tempo, parole, pensieri tra la pulsione e l’agito è già un movimento terapeutico prezioso.

CR

* Questo scritto è stato steso con il contributo del Dr. Antonio Pellegrino, psichiatra esperto nell’analisi e nella cura del disagio psichico intracarcerario.